Nel cuore di Londra, dove il verde dell’erba si fonde con il bianco immacolato delle divise, sorge il tempio del tennis mondiale. Wimbledon non è semplicemente un torneo: è un viaggio nel tempo, un rituale che da 148 anni scandisce l’estate inglese con la precisione di un orologio svizzero e la grazia di una danza aristocratica.
L’All England Lawn Tennis and Croquet Club nacque nel 1868 come circolo di gentiluomini appassionati di croquet, quel gioco raffinato che consisteva nel colpire una palla con una mazza seguendo percorsi prestabiliti. Solo nel 1877 il club aggiunse “Lawn Tennis” al proprio nome e organizzò il primo torneo della storia. Spencer Gore fu il primo vincitore davanti ad appena 22 partecipanti e 200 spettatori, ignaro di aver inaugurato quella che sarebbe diventata la cattedrale del tennis mondiale.
Il torneo crebbe negli anni seguendo un’evoluzione graduale: nel 1879 fu aggiunto il doppio maschile (inizialmente disputato in sede diversa), nel 1884 il singolare femminile e solo nel 1913 i doppi femminile e misto. Fino al 1921 vigeva il suggestivo sistema del “challenge round”: il campione in carica attendeva in finale il vincitore del torneo, un meccanismo che conferiva un’aura quasi mitologica al detentore del titolo. La modernità arrivò nel 1922 con l’eliminazione diretta e il nuovo circuito di campi utilizzato ancora oggi.
La magia di Wimbledon risiede nella sua capacità di resistere al tempo, di mantenere intatte tradizioni che altrove sarebbero considerate anacronistiche. È l’unico Grande Slam che si gioca ancora sull’erba, quella superficie capricciosa e nobile che trasforma ogni partita in un’opera d’arte imprevedibile, dove la palla danza e rimbalza seguendo logiche che solo i maestri dell’erba riescono a decifrare.
Il codice del bianco: quando l’eleganza diventa regola ferrea
Nel mondo dello sport moderno, dove i colori sgargianti e i brand invadono ogni centimetro di tessuto, Wimbledon mantiene il suo dress code rigoroso: il bianco non è solo un colore, è un manifesto. Dagli anni Ottanta dell’Ottocento, questa regola ha attraversato epoche e mode, diventando sempre più severa. La motivazione originaria era di natura pratica: le macchie di sudore sui vestiti colorati erano considerate sconvenienti e troppo visibili. Oggi non importa se sei Roger Federer o un qualunque giocatore del primo turno: il bianco bianco (non panna o simili) è legge.
La regola è talmente ferrea che non fa eccezioni per nessuno. Roger Federer si vide costretto a cambiare le sue scarpe con suole arancioni durante il torneo del 2013, dimostrando che nemmeno il re dell’erba può permettersi di sfidare l’etichetta wimbledoniana. Persino Andre Agassi, uno dei tennisti più forti e anticonformisti della storia, boicottò il torneo tra il 1988 e il 1990 per protestare contro questo dress code stringente, prima di cedere nel 1991 e vincere l’anno successivo.
Il dress code ha rappresentato per anni un problema particolare per le tenniste, obbligate a indossare pantaloncini e gonne totalmente bianche anche durante il ciclo mestruale. Solo nel 2023, dopo ripetute proteste, gli organizzatori hanno accettato di consentire pantaloncini scuri, purché non superino la lunghezza delle gonne bianche.
Gli organizzatori controllano ogni singolo dettaglio: dalle cuciture colorate ai loghi, dalle fasce per capelli agli slip che devono essere rigorosamente bianchi. È un’ossessione che ha radici profonde nella cultura britannica, dove l’understatement e l’eleganza discreta sono virtù cardinali. In un’epoca di eccessi, Wimbledon rimane un’oasi di sobrietà aristocratica.
Le fragole con panna: un amore che dura da 147 anni
Se c’è un’immagine che incarna Wimbledon più di ogni altra, è quella degli spettatori che degustano fragole con panna seduti sulle tribune, mentre l’erba scintilla sotto il sole inglese. Questa tradizione risale al 1877, proprio al primo anno del torneo, quando qualcuno ebbe l’intuizione geniale di abbinare la dolcezza delle fragole di stagione alla cremosità della panna inglese.
Non si tratta di un semplice snack da stadio. Le fragole della varietà Malling Centenary vengono coltivate dalla vicina Hugh Lowe Farms, raccolte rigorosamente a mano e consegnate quotidianamente fresche al club. I numeri di questo rito gastronomico sono impressionanti: nelle due settimane del torneo vengono divorati quasi 35 tonnellate di fragole, un fiume di dolcezza che scorre parallelo alle emozioni del tennis. È un fenomeno sociologico tanto quanto gastronomico: mangiare fragole a Wimbledon significa partecipare a un rituale collettivo che lega generazioni.
La tradizione ha attraversato guerre mondiali, cambiamenti sociali epocali e rivoluzioni tecnologiche, rimanendo immutata nella sua semplicità. È il simbolo di una continuità che sfida il tempo, un piccolo gesto quotidiano che diventa epico nel contesto wimbledoniano.
Il Centre Court: cattedrale laica del tennis mondiale
Entrare nel Centre Court di Wimbledon è come varcare la soglia di una cattedrale. Non è solo un campo da tennis: è il teatro dove si sono scritte le pagine più belle della storia di questo sport. Qui hanno pianto e gioito campioni di ogni epoca, da Björn Borg a Steffi Graf, da John McEnroe a Serena Williams.
Il campo centrale, con i suoi 15.000 posti, mantiene un’atmosfera intima nonostante le dimensioni. Dal 2009 è dotato di un tetto retraibile che permette di giocare anche quando la tipica pioggia londinese minaccia il programma. Il pubblico wimbledoniano è leggendario per la sua compostezza: niente urla scomposte o tifo da stadio, ma un silenzio rispettoso interrotto solo dagli applausi educati.
La Royal Box, che domina il campo centrale con la sua eleganza discreta, ha ospitato nei decenni sovrani, primi ministri e celebrità di ogni tipo. Sono 74 posti esclusivi, accessibili solo su invito del direttore del club – attualmente la principessa Kate Middleton. La cosa più ambita, oltre ai posti privilegiati, è l’accesso alla clubhouse dove si serve il tè delle 15:45 con la precisione di un orologio svizzero. Dal 2003 non esiste più l’obbligo di inchinarsi davanti alla Royal Box, anche se qualcuno continua a farlo spontaneamente, come Andy Murray che nel 2010 si inchinò davanti alla regina Elisabetta, presente per la prima volta dopo 33 anni.
I segreti nascosti del sacro prato inglese
L’erba di Wimbledon non è una superficie qualunque: è il risultato di una scienza e di un’arte tramandate di generazione in generazione. Il Head Groundsman, una figura quasi mitologica nel mondo del tennis, dedica l’intero anno alla cura maniacale di quei 18 campi che per due settimane diventano il centro del mondo sportivo.
La miscela di semi è segreta, custodita gelosamente come una ricetta di famiglia. Si sa solo che è composta al 100% da Perennial Ryegrass, tagliata a un’altezza di precisione millimetrica di 8 millimetri. Ogni blade d’erba viene curata come se fosse una reliquia: innaffiata con acqua pura, nutrita con fertilizzanti speciali, protetta dalle intemperie.
Il paradosso dell’erba wimbledoniana è che la sua perfezione dura pochissimo. Nel corso del torneo, i campi si trasformano: l’erba si consuma, appaiono le prime chiazze marroni, il rimbalzo diventa sempre più irregolare. È questa imperfezione crescente che rende ogni partita unica, ogni punto una piccola avventura nell’imprevedibile.
I re e le regine dell’erba: leggende che hanno fatto la storia
Wimbledon è il teatro dove si sono consacrati i più grandi campioni della storia del tennis. Nel singolare maschile, nessuno ha dominato come Roger Federer, lo svizzero che tra il 2003 e il 2017 ha conquistato otto titoli, trasformando il Centre Court nel suo salotto privato. La sua eleganza cristallina, il suo tennis fatto di geometrie perfette e tocchi sopraffini hanno elevato il gioco a forma d’arte pura.
Alle spalle del Maestro di Basilea si collocano tre leggende con sette vittorie ciascuno: l’inglese William Renshaw (1881-1888), che dominò nell’era pionieristica del challenge round; Pete Sampras (1993-2000), l’americano dal servizio devastante che fece dell’erba la sua arma segreta; e Novak Djokovic (2011-2022), il serbo che ha saputo adattare il suo tennis da fondo campo alle insidie dell’erba con una determinazione feroce.
Nel femminile, la regina incontrastata è Martina Navratilova, la cecoslovacca naturalizzata americana che tra il 1978 e il 1990 ha vinto nove volte, combinando potenza e precisione in un tennis rivoluzionario per l’epoca. Alle sue spalle l’americana Helen Wills Moody con otto successi tra il 1927 e il 1938, dominatrice di un’era in cui il tennis femminile stava scoprendo la sua identità moderna.
Il sogno italiano: tra speranze e conquiste storiche
Per l’Italia, Wimbledon è sempre stato un amore difficile, una superficie che sembrava allergica al tennis tricolore. In campo maschile, un solo italiano ha mai raggiunto la finale: Matteo Berrettini nel 2021, il romano che con il suo tennis potente e la sua determinazione ha sfiorato il miracolo prima di arrendersi a Djokovic. Prima di lui, le uniche luci nella lunga notte wimbledoniana erano state le semifinali di Umberto De Morpurgo nel 1928 e Nicola Pietrangeli nel 1960, eroi di un tennis italiano che cercava ancora la sua strada.
Il tennis femminile italiano ha saputo toccare i quarti di finale con cinque diverse tenniste, senza mai riuscire a superare quella barriera che sembrava invalicabile. Ma nel 2014 è arrivata la gioia più grande: Sara Errani e Roberta Vinci hanno conquistato il doppio femminile, regalando all’Italia l’unico titolo wimbledoniano della sua storia. Un trionfo che ha il sapore della rivincita, della testardaggine italiana che non si arrende mai.
Oggi, con Jannik Sinner numero uno del mondo, l’Italia guarda a Wimbledon con occhi diversi. Il giovane altoatesino rappresenta la speranza di riscrivere una storia che per troppo tempo ha visto gli azzurri nel ruolo di spettatori privilegiati piuttosto che di protagonisti.
The Queue: il pellegrinaggio dei veri appassionati
Esiste un rituale che rende unico Wimbledon nel panorama sportivo mondiale: The Queue, la leggendaria coda che da decenni attira migliaia di appassionati pronti a vivere un’esperienza che ha del surreale. Ogni sera, durante le due settimane del torneo, file di persone si accampano come per un concerto rock, armati di sedie pieghevoli, coperte e una pazienza infinitamente britannica.
A ciascun pellegrino viene assegnato un numero progressivo, trasformando l’attesa in un sistema democratico dove conta solo l’ordine di arrivo. La mattina, quando aprono le biglietterie, questi moderni crociati del tennis possono acquistare i biglietti rimasti a prezzi ragionevoli. È una tradizione anacronistica ma irrinunciabile, che resiste alle intemperie e ai bagni scarsi, alimentata dalla certezza che l’attesa renda ancora più dolce il momento dell’ingresso.
L’evoluzione di un gigante: dall’era amatoriale al professionismo
La storia moderna di Wimbledon inizia davvero nel 1968, quando cadde la barriera tra dilettanti e professionisti che per decenni aveva tenuto separati due mondi del tennis. Prima di allora, i campioni erano costretti a scegliere: rimanere “dilettanti” per giocare Wimbledon o diventare professionisti rinunciando al torneo più prestigioso. L’era Open, iniziata nel 1969, ha trasformato Wimbledon nel colosseo che conosciamo oggi, dove i migliori si sfidano senza distinzioni di categoria.
Il torneo ha resistito alle tempeste della storia: si fermò solo durante le due guerre mondiali (1915-1918 e 1940-1945) e nel 2020 per la pandemia. Ma ogni anno che è tornato, lo ha fatto più forte, più amato, più necessario. Oggi, con un montepremi che nel 2024 ha raggiunto i 50 milioni di sterline (oltre 58 milioni di euro), rappresenta il jackpot più ricco del tennis mondiale, dove anche l’eliminazione al primo turno garantisce un premio che ripaga mesi di sacrifici.
Rufus il falco: il guardiano alato dei cieli wimbledoniani
Tra le figure più amate di Wimbledon c’è Rufus, una poiana di Harris che da quindici anni svolge il compito di guardiano del cielo. Ogni mattina, prima che inizino le partite, Rufus vola sui campi per tenere lontani i piccioni, senza far loro del male ma intimidendoli con la sua sola presenza. È diventato una celebrità social con oltre 10.000 follower su X, testimonianza di come anche i dettagli più piccoli assumano dimensioni epiche nel mondo wimbledoniano.
Prima di Rufus c’era stato Hamish, un falco che per 25 anni aveva svolto lo stesso compito con dedizione assoluta. Questi rapaci addestrati rappresentano la sintesi perfetta tra tradizione e innovazione: un metodo antico per risolvere un problema moderno, senza ricorrere a tecnologie invasive ma affidandosi alla saggezza della natura.
L’eredità di un sogno sull’erba
Mentre il tennis moderno corre verso l’innovazione tecnologica e lo spettacolo globalizzato, Wimbledon rimane un’isola fuori dal tempo. Non è nostalgia fine a se stessa, ma la consapevolezza che alcune tradizioni meritano di essere preservate perché rappresentano valori universali: l’eleganza, il rispetto, la bellezza del gesto atletico.
In un mondo che cambia a velocità vertiginosa, il torneo londinese offre la rassicurante certezza della continuità. Qui il tempo si dilata, ogni punto ha il peso della storia, ogni vittoria entra nell’eternità. Non è solo tennis: è poesia in movimento, arte che si rinnova ogni anno mantenendo intatta la sua essenza più profonda.
Wimbledon è la prova che la tradizione non è il culto del passato, ma la trasmissione del fuoco sacro. Un fuoco che arde da 148 anni e che continuerà a illuminare i sogni di tutti coloro che credono nella bellezza dello sport come espressione suprema dell’animo umano.

Direttore editoriale di No#News Magazine.
Viaggiatore iperattivo, tenta sempre di confondersi con la popolazione indigena.
Amante della lettura, legge un po’ di tutto. Dai cupi autori russi, passando per i libertini francesi, attraverso i pessimisti tedeschi, per arrivare ai sofferenti per amore, inglesi. Tra gli scrittori moderni tra i preferiti spiccano Roddy Doyle, Nick Hornby e Francesco Muzzopappa.
Melomane vecchio stampo: è chiamato il fondamentalista del Loggione. Ama il dramma verdiano così come le atmosfere oniriche di Wagner. L’opera preferita tuttavia rimane la Tosca.