Il bambino camminava appiccicato alla madre. Era più forte di lui. Aveva dieci anni, e da cinque viveva nel tormento della sua mancanza. … Dal giorno in cui era stato lasciato all’orfanotrofio non ricordava nulla. C’era il tempo prima e il tempo dopo, ma il giorno della cesura fra un tempo e l’altro l’aveva rimosso. … e quando gli chiedeva di descrivere come fosse accaduto, quali fossero stati i gesti, le parole di quella separazione, lui tacevaGli altri sapevano di doversi separare dalla madre, si erano opposti all’evento, poi lo avevano accettato. A lui era accaduto all’improvviso, senza che avesse il tempo di metabolizzarlo. Se ne dispiacque, ma non andò a dargli conforto. Non lo fece nessuno dei bambini. Forse perché sapevano che per quel dolore non c’era conforto possibile. Ne ebbero rispetto, e glielo lasciarono sfogare.
Si chiese per quale motivo meritassero l’ovazione: che cosa avevano fatto di straordinario? Non serviva alcun talento per essere un rifugiato, alcun impegno bastava la sfortuna di abitare un Paese in guerra, e la sfortuna non era uno spettacolo da acclamare.
“Non voglio stare lì dentro, non mi piace. Da qui vedo il cielo.!
“A Sarajevo non guardavi mai il cielo.”
“A Sarajevo c’era la mamma.”
Ivo è a Sarajevo, dorme in un fosso, e non conta nemmeno una stella, striscia sul terreno per non farsi avvistare, ha un fucile con sé e prima o poi sparerà.
Nada invece ha lasciato Sarajevo e niente sarà più come prima.
Le chiese che hai, la bambina piangeva senza lacrime, come se non fosse capace di farlo, come se non avesse mai imparato, ed era così, non ci era abituata, ma Danilo non poteva saperlo, non la conosceva abbastanza.
Omar non poteva riempire nulla, coltivava un vuoto integrale con una devozione che avrebbe scoraggiato anche i più volenterosi, le sue giornate erano la liturgia ripetuta di un culto incondivisibile persino per il fratello.
Si impose di separarsene, dimenticarsi di averla incontrata, era stato una vita senza di lei e non l’aveva rimpianta. Lui era la prova che si può vivere senza una madre e un padre, che si può crescere senza un consiglio, uno sprone, un abbraccio di conforto. … la furia era un dolore alle corde vocali. Non si poteva espellere se non piangendo. Quella furia fermentava in lui da anni, da sempre, e sfiancato dallo sforzo di dominarla Ivo cadde in ginocchio.
Nada penso che i nonni non erano mai andati a trovarli all’orfanotrofio. Perché? Che cosa ci voleva, ad amare loro due? Non c’era nulla da perdonare, perché lei non aveva mai portato rancore. Si è mai vista una bambina di quattro anni che odia sua madre?
Tentò di ricordare come fosse la sua presa, quando lei lo teneva per mano. Che consistenza avesse il suo palmo, quale temperatura, se era secco, asciutto, com’era stringerlo da bambino. Da quanto tempo non camminava per mano a sua madre.
Rise di nuovo, ma a occhi bassi, concedendo al proprio sguardo una porzione risicata di spazio, quasi a proteggerla, quella felicità: se avesse alzato la testa, forse sarebbe svanita. Condividerla sarebbe stato un azzardo. Una forma di arroganza.
“Tu mi sei mancata sempre, anche quando vivevamo insieme. È da quando ti conosco che mi manchi.!
Ambientato nel 1992 a Sarajevo durante la guerra dei Balcani. Racconta la storia di alcuni bambini che vengono lasciati dalle loro famiglie nell’orfanotrofio nella speranza che abbiano a sufficienza da mangiare ma soprattutto che la clemenza dei soldati non sganci su di loro le bombe o intere raffiche di mitra.
Tra questi bambini ci sono Omar e Nada coi loro rispettivi fratelli.
La situazione diventa sempre più pericolosa e con l’aiuto dei caschi blu dell’ONU i bambini vengono messi su dei pullman con destinazione Italia. A partire non saranno solo i piccoli orfani ma anche i figli di alcuni giornalisti o personaggi televisivi, tra questi Danilo.
Passano gli anni, la guerra finisce ma non finisce la speranza di Omar di rincontrare sua madre anche se non ha più sue notizie dal giorno in cui una granata esplose proprio vicino a loro sulla via del ritorno verso l’orfanotrofio.
La mancanza della madre, per Omar, è come un coltello poggiato su una ferita aperta. Tutti si prodigano a curarla, disinfettarla, tenerla al sicuro affinché non si infetti e non peggiori, ma nulla può desistere la lama del coltello ad affondare piano piano, ogni tanto un millimetro in più fino a che non si conficcherà così in profondità che niente e nessuno potrà far rimarginare la ferita. Una ferita che non sanguina ma si infetta ogni giorno di più fino a portare Omar ad essere una persona totalmente “infetta”. Un bambino, e poi un uomo, “infettato” dalla mancanza della madre.
Ispirato a una storia vera, Mi limitavo ad amare te, è un libro che non si può leggere tutto d’un fiato, perché è un libro che fa male e mentre fa male va assaporato. Un libro da leggere a piccole dosi, perché il male che fa è lo stesso che ci aiuta a capire quanto un piccolo gesto può rovinarci la vita o salvarcela per sempre.
Un libro che parla alle profondità dell’animo umano, un libro che smuove le coscienze, un libro che tira fuori ricordi che abbiamo preferito e che preferiamo dimenticare.
Mi limitavo ad amare te
di Rosella Pastorino – Feltrinelli
