Mi ero affezionata a quel tempo morto di solitudine. Era diventato una parte di me. Una parte fondamentale. In quelle ore diventavo Veronika: una popstar perennemente in tour mondiale che conosceva uomini nuovi ogni giorno e poi li abbandonava, pronta a partire per la prossima tappa.
Mi poggiava sulle cose «La Settimana Enigmistica» e mi insegnava a fare i rebus. Ero affascinata dai disegni, erano l’arte sacra di un universo più profondo, dove ogni singolo elemento era denso di significato. Mi perdevo.
Sull’autobus del ritorno mi sentivo eroica e tristissima, avevo fatto una delle prime scelte deliberate della mia vita, però ero stata insincera e la pudicizia si era trasformata in distanza.
Non ricordo quando è stato il momento in cui ho smesso di pensare a mio padre tutti i giorni dopo la sua morte. A un certo punto è successo, così come accade nelle storie d’amore. Pensi che non sia possibile, e invece è possibile. Arriva quel momento.
Dalla finestra entrava la luce di un sole intorpidito, volevo solo uscire dalla stanza. Annientare tutte le altre ultime occasioni che mi aspettavano. Perdere i treni, non cogliere gli attimi, cruciare i ponti e gli ultimi fuochi, sguazzare nel mare dell’irreversibilità.
Nessuno ha fatto cenno alla questione, e lentamente il non detto si è trasformato in qualcosa di diverso, una complicità che ci rifiutavamo di ammettere e che per questo ci rendeva più vicini e più diffidenti.
Ma probabilmente il sentimento è ancora un altro, la consapevolezza di non aver fatto l’unica cosa che avrebbe dato un senso diverso al mio presente: diventare quello che fingevo di essere.
Nella mia vita non vedo mai il bicchiere mezzo pieno. Nemmeno mezzo vuoto. Lo vedo sempre sul punto di rovesciarsi. Oppure non lo vedo proprio.
Non ho mai avuto un’immagine di me nel futuro che non fosse del tutto velleitaria. Le velleità di solito servono a ingannare se stessi, mentre io volevo ingannare gli altri.
La maggior parte dei ricordi ci abbandona senza che nemmeno ce ne accorgiamo; per quanto riguarda i restanti, siamo noi a rifilarli di nascosto, a spacciarli in giro, a promuoverli con zelo, venditori porta a porta, imbonitori, in cerca di qualcuno da abbindolare che si abboni alla nostra storia.
Sono grata alla mia caparbietà, perché è solo grazie a lei che ho continuato e finito questo libro. E le sono immensamente grata.
All’inizio l’ho trovato, noioso, inconcludente, incapace di incatenare la mia mente alle pagine. L’ho abbandonato per qualche tempo e poi ripreso. Ed è stato allora, dopo una lunga pausa che ho capito perché non riuscissi ad andare avanti con la lettura, credevo non mi piacesse ma la realtà era un’altra.
In fondo, tutte le vite sono diverse e tutte le vite sono “uguali”. Ognuno di noi ha dei ricordi spiacevoli, ricordi che teniamo ben custoditi facendo finta che non esistano. Eventi, persone, lutti, sogni infranti, ricordi modificati.
Veronica Raimo, si addentra in questi ricordi raccontando la sua vita, con ironia, senza piagnistei, e senza dirci se è tutto vero o tutto inventato.
Ma in questo libro è come se ci fosse qualche nostro ricordo. Ed è questo riportare a galla qualche ricordo seppellito che mi aveva fatto desistere dal continuare la lettura; mi infastidiva “ricordare”.
Ma i ricordi sono parte di noi, sono il bagaglio della nostra vita passata, è ciò che ci ha fatto diventare “noi ora”.
L’ironia, come diceva qualcuno, è il sale della vita e Veronica Raimo sa usare il sale come un cuoco professionista.
Niente di vero
di Veronica Raimo
Einaudi 2022 (163 pag.)
