Ha già ricevuto numerosi premi in giro per il mondo, è pronto all’assalto agli oscar con 14 candidature in ogni dove. Il musical di Damien Chazelle l’abbiamo gradito anche noi, in modo inaspettato. Dal 26 gennaio sugli schermi italiani.
Mia è un’aspirante attrice che pur d’inseguire il suo sogno lavora al bancone di un tavola calda all’interno di uno studio di produzione. Sebastian è un pianista costretto dal suo datore ad intrattenere i clienti con scalette lontane dal suo gusto artistico. Un brano fuori tema suscita la curiosità di Mia, note che avvicinano i due in una relazione fatta di sogni.
Come la musica jazz, i musical non piacciono a tutti. Per La La Land però si può essere tutti d’accordo. Di belli come questo si faticherà a trovarne. Straordinario è che un musical si ponga il problema dell’autorialità, dell’arte che va vissuta e dell’espressione artistica lontana dal gusto del pubblico, troppo spesso amorfo. Straordinario perché un musical americano suona tanto come un prodotto di serie dalla drammaturgia piatta, con quel tanto che basta all’intrattenimento. In La La Land l’aspetto ludico del canto è amputato. Finalmente, una volta tanto, le composizioni musicali e le coreografie non sono estensioni farsesche da mondo parallelo, ma funzionali alla narrazione.
No, non sono delle macchiette goffe ingenue e genuine a muoversi sullo schermo e nella testa di Chazelle. Bellissimo guardare Ryan Gosling e Emma Stone durante il loro primo ballo cantato assieme, dove più che la totale coesione con i propri passi danzanti emerge un vero e proprio distacco da se stessi, come se i due protagonisti fossero palpabilmente costretti nei movimenti. Non c’è il successivo ripiombare nella realtà “silenziosa”come da copione hollywoodiano. I due qui non devono tornare proprio da nessuna parte. Sono sempre rimasti al proprio posto, drammaticamente. Con una regia da capogiro, i complimenti vanno al regista che all’interno della sua macro opera, oltre a spalmare scenografie rubacchiate dai dipinti di Hopper, è in grado di citare la tradizione e un momento dopo tradirla. Accorpa la propria autorialità al genere meno d’autore di sempre, creando uno spaventoso attrito mai cavilloso e sempre schietto.
Tradirsi è proprio tutto ciò che fa Sebastian, smantellando il suo sogno di “purificazione” della musica jazz pur d’avere un lavoro stabile ed una vita setacciatile e comprensibile, ma finisce tornare sui propri passi, alle origini. In La La Land i sogni sono ferite che trovano da sé la propria cicatrizzazione; lasciano segni tangibili, a volte dolorosi, ma in fin dei conti restano degli accessori meravigliosi che si raccontano in autonomia. Sono proprio i sogni di entrambi a realizzarsi, ma solo quando i due saranno ormai lontani. Lei una famosa attrice, lui paladino della musica che si fa intesa e comunicazione sacrale. Questa è la variante sul mito musicale composto da Chazelle, la vena drammatica che rende l’intero lavoro non una derivazione storico artistica del passato, di quel cinema degli anni 30/50, ma una vera e propria innovazione, un musical nuovo. Se Sebastian può aprire il suo locale in cui si ascolta solo puro jazz è perché può non rispondere delle proprie azioni, nutrendo quell’estro che cede materia all’aspirazione. Peccato non si possa fare lo stesso discorso per l’estro di Gosling. Strepitosa Emma Stone che riempie di colore i copioni per entrambi, accollandosi il lavoro doppio.
Mai sdolcinata, la pellicola si lascia colmare da canzoni orecchiabili (di Justin Hurwitz) che continuano a martellare la testa anche dopo i titoli di coda, come dei tarli. Non proprio a caso La La Land ha ottenuto quattordici candidature agli oscar. Probabilmente, come film trionfante dell’anno trascorso, porterà a casa un corposo bottino di statuette e per una volta non ci dispiacerebbe.